domenica 15 maggio 2011

Le bugie sono gratis (ma si pagano)

Nei momenti di stallo, che erano sempre più di quelli di attività, rimaneva appoggiato allo stipite della porta, guardando il nulla di fronte a lui, e cercando di evitare il nulla, dentro di lui.
Le sue maniere aggraziate erano uno scialle lasciato cadere distrattamente sulla sua indifferenza autentica e sulle sue spalle strette di non sportivo, e non c’era sospiro di donna che non si levasse al cospetto suo e della sua indole maledetta.
I maledetti, in verità, lui li odiava, perché somigliavano a lui, ma scopavano assai più di lui, che maledetto lo era davvero, e questo era un problema, non una virtù. Non che non gli piacesse scopare, chiaro, ma aveva un problema col lasciarsi andare, o qualcosa del genere, o meglio, con  avere quello che desiderava, ecco. Quello che non sopportava, poi, erano le mani degli estranei, quando ti toccano per dirti il loro nome. Prendere la mano di uno sconosciuto è come mostrarsi in boxer ai passanti che ti spiano dal marciapiede, appena alzato dal letto, quando le tapparelle dovrebbero essere ancora del tutto chiuse. E a lui le sue mutande piaceva farle vedere a chi voleva lui.
La verità, poi, era che lui l’amava ancora, e non c’era verso di cambiare la verità.
Lui, da parte sua, si era affrettato a buttarsi fra le braccia di una ragazza non banale, con cui aveva in comune qualche interesse secondario, alcuni amici d’infanzia, la voglia di avere qualcuno da proteggere.




La verità, però, stava lì sdraiata, gatto sonnacchioso a guardarlo dal bordo del suo letto, dal cuscino del divano, dal cofano della macchina, mentre lui armeggiava con qualcosa che aveva a che fare con le sue visioni, un teorema matematico e quattro fogliacci. Alcuni giorni erano meglio di altri, ma tempo addietro pensò addirittura d’impazzire, una notte, quando tutte quelle cose passate gli arrivarono addosso, pezzi di vetro e magnete terrestre, e infarto del miocardio, e sudore improvviso, e lacrime strozzate e poi lasciate andare, e tempesta cosmica, spari in pieno viso, rumore sordo e assordante e mai sulle orecchie, e sete e dolore senza nome a rivoltargli sulla faccia, sulla pelle, la sua mancanza.
“So che pensi ancora a lei. Ma non stiamo bene, noi?” gli aveva chiesto Quella-che-non-era-lei, come si sorprese a chiamarla, vergognandosene, in uno dei suoi momenti di lucida sincerità, momenti che uccideva con la forza dell’inganno, della disperazione e dell’orgoglio, ma tempo sei minuti e già ritornavano. E cosa poteva risponderle? Che gli mancava un pezzo del suo corpo ma non sapeva quale? Un pezzo di tutte le parti del suo corpo? Che di sera, ogni sera, sguardo al nero del soffitto, mentre ragionava sullo stupido vuoto dei giorni, il sentiero dei pensieri arrivava sempre a lei, e con lei terminava, oblio ultima fermata? Che la notizia di lei con un altro lo aveva gettato a terra, voragine voragine voragine, preso a calci, annientato, nemmeno un appiglio, sempre più giù, giù, giù, violentato lì, in piedi al banco del bar davanti agli occhi del suo amico informato, troppo informato accidenti a lui? Che gli occhi di lei erano rimasti sempre gli stessi, piccoli guizzi di gioia indagatrice, mezzelune di curiosità e malizia, finestre aperte che lei spalancava su lui,  e su cui poggiava i suoi gomiti bianchi, viso pulito sulle mani, unica autorizzata ad entrare nel suo mondo oscuro non poi così oscuro per lei? Che nella frenesia del giorno, cercare tracce dei suoi pensieri in un computer era diventato non più svago e diversivo, ma abitudine e bisogno?
Lui mica se le ricordava tutte quelle sue espressioni buffe, e anche le foto non bastavano mai. Quel giorno, gambe nude e capelli sciolti, la riconobbe di spalle dalla voce, portava a spasso la sua allegria nella gonna svolazzante che a lui faceva sempre rivedere, filmino in bianco e nero, i giorni al mare, lei a leggere e lui a scrivere scrivere scrivere, ogni tanto una pausa, lei che lo stava osservando chissà da quanto, un sorriso regalato.
Allora chiude il quaderno, si fotta anche questo dannato gatto, dà un calcio al micio che scappa giù in un attimo, e sale in macchina. Mica sa dove andrà. Ma salta veloce col dito alla traccia 6 e poi 7, per commiserarsi in santa pace ascoltando quella canzone dove c’è il nome di lei alla fine, quando meno te l’aspetti, e quell’altra, che ha scritto lui ma non lo sapeva, che lo accompagnano nella notte silenziosa, lui e i suoi demoni, tornante dopo tornante.

(…continua altrove)

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